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Dalla parte delle donne per riportarle alla vita

Il racconto di chi vive da molti decenni l'esperienza di volontariato. La signora Emanuela abita a Velletri, è madre e nonna e si è occupata per tanti anni della gestione di una casa-famiglia dove personalmente si è occupata di casi difficili riguardanti ragazze molto giovani. Attualmente fa parte di un centro-ascolto della Caritas.

Lei dirige o collabora con una casa rifugio: qual è il Suo ruolo nella gestione-organizzazione della casa?

Mi chiamo Emanuela e per quindici anni ho avuto l’incarico di responsabile coordinatrice di una casa-famiglia per donne in difficoltà psicosociale o vittime di volenza domestica. Questo ruolo l’ho mantenuto fino a Marzo 2020. Il mio compito ha riguardato il coordinamento e la gestione della casa dal punto di vista economico e alimentare, da quello dell’accoglienza e dei colloqui preliminari con centri antiviolenza o servizi sociali, SERT e CIM, o anche con le forze dell’ordine; mi sono occupata anche dell’inserimento scolastico di eventuali minori, della sistemazione di documenti personali delle ospiti, e del coordinamento con insegnanti, avvocati e psicologi al fine di individuare un progetto di semi-autonomia e poi di autonomia per la donna ospitata. Inoltre, è stato mio compito quello di curare la formazione dei volontari all’interno della casa, e di coordinare le attività ludico-ricreative.

Come è arrivata ad interessarsi di una realtà tanto delicata e difficile?

Ho iniziato occupandomi del centro di ascolto della Caritas nel 2004/2005 come operatrice. Ho ascoltato storie che richiedevano interventi precisi, così ho scritto insieme al direttore un progetto di accoglienza per donne che purtroppo non avevano un luogo dove vivere, a forte rischio sociale e in difficoltà economica: la casa-famiglia è nata da questo, ed è diventata, nel tempo, famiglia per altre famiglie.

Nella casa le ospiti sono solo italiane o anche le immigrate vengono accolte?

In tutti questi anni la struttura ha accolto donne italiane e straniere, sole o con figli. La maggior parte delle donne è italiana.

Se la se provenienza delle donne fosse diversa, questo renderebbe la situazione più difficile ed inoltre e le donne maltrattate riescono a trovare comprensione reciproca magari anche aiutandosi?

Le donne all’interno della casa sono una risorsa le une per le altre: coloro che hanno subito gravi violenze a livello fisico, psicologico, economico o sessuale sono molto solidali fra loro. E questo senza alcun dubbio contribuisce a creare un ambiente sereno e costruttivo come in una vera famiglia.

Nel parlare di donne maltrattate si pensa con più facilità a maltrattamenti fisici, è vero? E soprattutto le violenze psicologiche sono accompagnate da quelle fisiche o ne sono la base dalla quale arrivare alle botte? Ed in quale misura l’abitudine alla sottomissione impedisce a tante donne a sopportare violenze di ogni tipo?

Le donne che hanno subito abusi a vari livelli, non sono a mio parere sottomesse, ma deprivate a vari livelli. Amano molto i compagni, i mariti e i figli, che in alcuni casi sono gli stessi che fanno loro violenza fisica e psicologica. Restano per diversi motivi: spesso non hanno risorse economiche proprie, o è stato impedito loro di lavorare, oppure hanno dovuto lasciare il lavoro per la nascita di un figlio. Sono isolate da una rete parentale che si è allontanata - o che è stata allontanata, a volta dalla donna stessa, per paura. Sono completamente isolate dal contesto. Spesso lo sono gli stessi bambini. La violenza di genere, soprattutto domestica, è perpetuata da uomini che fanno parte del nucleo familiare delle donne e non da sconosciuti: sono persone che esse amano e di cui si fidano. Si trovano così incastrate in una spirale relazionale, chiamata dagli esperti spirale della violenza: dopo eventi di violenza (verbale o fisica), l’uomo chiede scusa, chiede di essere perdonato, e assicura che non farà più del male; la donna gli crede e questo si ripete ciclicamente. Convincendosi che amandolo cambierà, si passa alla fase luna di miele, in cui per un po' va tutto bene. Poi l’evento si ripete, aumentando di volta in volta d’intensità.

Le chiedo anche se le immigrate, essendo in generale più sottomesse a padri e a mariti fanno più fatica a denunciare, o se anche in questo caso la violenza è uguale per tutte, quale che sia la provenienza, la cultura e la religione?

In questi anni abbiamo notato che le donne immigrate tendono in maggioranza ad allontanarsi da casa e riescono, rispetto alle donne italiane, a reagire prima, organizzandosi e reinventandosi in diversi lavori. Le donne italiane denunciano poco e fanno tanta fatica ad ammettere quello che accade dentro casa. Certo anche per preservare sé stesse e i figli da giudizi e comportamenti negativi da parte di chiunque le avvicini o le conosca.

Quale criterio guida eventualmente la sua struttura nella scelta delle donne da accogliere?

Il criterio che adottiamo è quello dell’emergenza e dell’urgenza di allontanare la donna dalla propria abitazione. Spesso sono le forze dell’ordine che intervengono, spesso i centri antiviolenza che le accompagnano, qualche volta i centri di ascolto delle Caritas.

Si dice che il fenomeno della violenza prima di riguardare l’universo femminile dovrebbe essere studiato innanzitutto guardando al mondo maschile, è vero? Ed è vero che nei nostri giorni la situazione si è aggravata anche per la pandemia che ha costretto tutti a rimanere in casa?

La pandemia ha aggravato la situazione, costringendo le persone a stare a casa. La violenza domestica come è emerso da statistiche importanti è stata solo portata alla luce, ma non curata e tantomeno superata. Perché la violenza sulle donne, la violenza di genere soprattutto domestica va affrontata con uomini e donne insieme. Anzi, secondo me, già nelle scuole elementari e medie, se si ascoltano i ragazzi e si fanno attività di prevenzione, si comprende con drammatica chiarezza quanto sia ancora lunga e complessa la strada da percorrere.

Quali sono le terapie utili per curare e forse guarire le donne?

Non sono una psicologa, quindi a questa domanda non le posso rispondere in modo tecnico. L’esperienza mi ha insegnato, tuttavia, che un luogo sicuro dove riscoprirsi, un percorso con una psicologa specializzata sulla violenza, un avvocato preparato a dare fiducia alla donna, una scuola che non stigmatizzi i figli, un lavoro ben retribuito che le dia la possibilità di vivere in modo dignitoso, e l’aiuto ed il sostegno di altre donne, che non la giudichino o la colpevolizzino, sono in grado di permetterle di essere una nuova risorsa per sé stessa, per i suoi figli e per la società.

Spesso le donne portano con sé i loro bambini anch’essi provati dalla violenza. si riesce a curarli in modo che dimentichino i giorni bui trascorsi e soprattutto non diventino a loro volta violenti?

In una ricerca di Save the Children, si afferma che la violenza assistita, ovvero quella in cui i bambini assistono ad un episodio violento perpetrato nei confronti di una figura per loro significativa, ha una ricaduta pari, se non superiore, a chi la subisce direttamente. La violenza assistita è un’altra piaga: i bambini non dimenticano. In casa-famiglia, come in ogni centro di protezione in cui sono accolti, sono chiamati a fare lo stesso percorso delle madri. Mi è capitato di ascoltare storie di donne che abbiamo accolto, che erano figlie o nipoti di donne che avevano subìto violenza domestica; oppure di parlare con ragazzi che pensano che la violenza sia l’unico modo per farsi ascoltare perché così hanno visto fare. Se non si interviene a più livelli, si corre il rischio di perpetuare la condizione di vittima e di oppressore.

So che il luogo dove le donne vengono accolte deve rimanere segreto per impedire agi uomini di trovarle e, ahimé, convincerle a tornare a casa. Ma so anche che in questi tempi in cui tutti sono in possesso di smartphone la caccia può essere facilitata. E’ vero? E come reagiscono le donne e i loro figli?

Con le donne si fa un patto di segretezza e lo stesso con i figli. Quando sono state trovate è perché quel patto è stato violato, magari parlando con un familiare che “a fin di bene” ha reputato esagerata la fuga della donna. Per la mia esperienza, quando una donna decide di scappare di casa, di abbandonare la sua vita e il suo mondo, è perché ha avuto la netta percezione che lui non sarebbe cambiato, che restando sarebbe probabilmente morta, o peggio, che sarebbe potuto accadere qualcosa di tremendo ai propri figli. Ha avuto una frazione di secondo che le ha fatto superare il senso di colpa, la vergogna e l’umiliazione. Da quel momento, inizia per loro una vera e propria battaglia legale per l’affidamento dei figli e di riconoscimento dei loro diritti.

È altresì vero che spesso soprattutto i figli adolescenti vogliono essere trovati magari allettati da regali o da promesse di regali da parte del padre?

Quanto detto sopra vale anche per i figli, soprattutto se sono adolescenti, che capiscono bene quanto sia importante allontanarsi e mantenere il patto di segretezza. Qualche volta invece abbiamo accolto ragazze adolescenti andate via perché non volevano più subire le violenze dei familiari o vedere la madre soffrire. Forse tentare di estorcere informazioni è più facile con un bambino piccolo, magari durante un incontro protetto, ma è molto raro: in quel caso un operatore o una operatrice è sempre presente per vigilare che ciò non avvenga.

Quale la percentuale di successo ossia di vera guarigione la sua struttura è riuscita negli anni ad ottenere?

La percentuale è molto alta: tra il 2006 e il 2020 abbiamo accolto donne di tutte le nazioni, italiane e straniere, alcune laureate, altre con un livello di istruzione inferiore; alcune con figli, altre da sole. Mediamente, costruendo intorno a loro una rete professionale qualificata e di vera solidarietà, in circa tre o quattro anni la donna riesce a farcela e a non ricadere nella spirale della violenza, diventando un esempio per i figli e le figlie. Negli anni, oltre alla casa di accoglienza, abbiamo creato due case-ponte per il passaggio verso la semi-autonomia e poi verso l’autonomia definitiva.

01.09.2021

di Sara Gilotta

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