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Città invisibili o uomini invisibili


Italo Calvino è l’autore di un romanzo intitolato “Le città invisibili” in cui Egli immagina che Marco Polo descriva al kublai kan le città da lui visitate in tutte le sue ambascerie. Ne deriva un quadro potente e affascinante di tante città reali o fantastiche attraverso le quali Calvino cerca di scoprire le ragioni che hanno indotto in tutte le epoche gli uomini a vivere nelle città. E le ragioni storiche, economiche ed umane che lo scrittore scopre vanno ben al di là di tutte le epoche e di tutte le crisi. E’ questo il motivo per cui il romanzo di Calvino è tornato alla mia memoria. Nella lunga storia delle civiltà, del resto, le città hanno rappresentato meglio di qualunque altra realtà, la storia, i desideri i progressi dell’uomo. Perché, come si comprende bene dalle pagine del romanzo, le città sono e sono state luogo di memorie, di speranze, di scambi economici e commerciali e, forse soprattutto, luogo di progresso realizzato o soltanto sperato. E’ per tutto questo che Papi, Sovrani e popoli interi hanno realizzato per le loro città monumenti di bellezza straordinaria e imperitura, veri testimoni della ricerca continua per ciascun essere umano di sogni e di felicità. E mentre Marco Polo fa passare sotto i nostri occhi città fiabesche come Bagdad o Samarcanda con tutte le altre di cui ci è rimasta magnifica testimonianza anche grazie alla letteratura e l’arte, la realtà odierna si mostra in tutta la sua crudezza: con le città vuote, dove i monumenti, opera geniale di sommi artisti, ma anche risultato del lavoro di tanti sconosciuti che con le loro mani e i loro sacrifici hanno lasciato un’orma indelebile delle capacità umane, sembrano esprimere la medesima angosciosa solitudine di cui tutti noi soffriamo.

E oggi il vuoto, la “solitudine” dei monumenti sono il simbolo di quanto la civiltà contemporanea sia giunta ad un bivio, ad una scelta diversa da quella che fin qui appariva conquista assoluta e definitiva. E se è vero che di definitivo nella storia non c’è nulla e che sbaglia chiunque con arrogante sicumera si ritiene al di sopra e al di fuori di ogni pericolo, questi non solo sbaglia, ma nuoce certamente al progresso vero. Come chi, del resto, chiuso nella sua ignoranza, non si rende conto nemmeno del fatto che ha perduto la sua vita proprio vivendo in modo errato. Preferendo i guadagni facili alla conquista lenta e faticosa della sapienza generosa, quella che non dimentica il dubbio, unico vero maestro del vivere umano. Perché fa parte della vita saper scuotere il capo su realtà e verità ritenute dai più incontestabili e perciò necessarie. Necessarie tanto che ogni dubbio viene rifiutato e chi si ostina a riflettere viene considerato un inutile orpello della società. Perché ormai da molti anni le decisioni devono essere veloci e incontestabili. E’ questo il motivo per cui, secondo me, il ruolo riservato alla politica e alle sue “guide” è diventato solo espressione di un falso pragmatismo che è solo desiderio di affermare la volontà di chi non ama porsi dei dubbi e di chi soprattutto non ama nemmeno il confronto sentito come “diminutio” di potere e di autorevolezza.

Così le città ben prima del contagio virale si sono svuotate di contenuti per divenire luogo in cui una massa indistinta si muoveva febbrile e forse persino inconsapevole del luogo ove si dirigeva o avrebbe voluto dirigersi. In fondo il virus è solo un punto di arrivo di un processo che ha lentamente eliminato persino la consapevolezza del pericolo qualunque potesse essere per accontentarsi di soddisfazioni false e caduche. Molti, forse troppi di noi hanno creduto che a tutto si può rispondere con un conto in banca e hanno dato vita ad un mondo ricco di macchine mirabolanti, ma che ha sottratto alla natura la sua importanza.

Anzi abbiamo creduto di sottometterla ai nostri voleri e alle nostre esigenze ricorrendo a metodi che hanno dimenticato che tra il genere umano e la natura non può che esserci reciprocità altrimenti sarà sempre la natura a ricordare agli uomini tutti che, come scriveva Leopardi: “Come d’arbor cadendo un picciol pomo, \cui nel tardo autunno\ maturità senz’ altra forza atterra, \d’un popol di formiche i dolci alberghi, \ cavati in molle gleba\ con gran lavoro, e l’opre”. Allo stesso modo al popolo degli umani porterà infiniti danni qualunque anche piccola reazione della natura. E lo stiamo drammaticamente vivendo.

2 maggio 2020

di Sara Gilotta

 

 

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